Un'immagine di "Alì ha gli occhi azzurri" di Claudio Giovannesi

“Un paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano o i costi sono eccessivi. Un paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere”.

Claudio Giovannesi risponde con una citazione testuale di Italo Calvino quando gli chiediamo che idea si sia fatto della vicenda di Rosa Maria Dell’Aria, l’insegnante di Palermo sospesa per “non aver vigilato” sugli alunni che hanno realizzato un video che accostata il decreto sicurezza alle leggi razziali.

Claudio è un vecchio amico del SDF. Vi partecipò, giovanissimo, nel 2008 con Welcame Bucarest, tornerà quest’anno col suo ultimo film, La paranza dei bambini, tratto dal romanzo di Roberto Saviano, e come membro della giuria internazionale che assegnerà il Premio Tasca d’Oro al miglior documentario. L’abbiamo sentito per parlare della nuova edizione, ma anche di quanto sta accadendo in questo Paese che, appunto, rischia di perdere se stesso.

A partire da un punto di vista analogo, abbiamo aderito all’appello per il difesa dell’insegnamento della storia e quest’anno al Salinadocfest inauguriamo una nuova sezione su “Cinema e Storia” dedicata agli insegnanti e agli studenti. Caso Palermo a parte, cosa pensi di quel che sta succedendo alla scuola di oggi e all’attacco contro l’insegnamento della Storia nei programmi scolastici?

“Per me la cultura e la formazione sono l’assoluta priorità di una società democratica. Quando le istituzioni smettono di investire sulla scuola, accadono le cose che racconto nel film. Il danno equivale a una bomba atomica. Se quei ragazzi fossero andati a scuola, forse tutta la loro vita sarebbe stata diversa. Senza arte e senza poesia non esiste futuro per le nuove generazioni”.

Nel 2008 sei stato in Concorso con Welcome Bucarest al Salinadocfest, che ti ha scoperto come documentarista. Poi hai proseguito alternando finzione e documentario e ora sei arrivato a Berlino. Che ricordo hai del Festival e di Salina?

“A Salina ho vinto il primo premio della mia vita in un Festival. Avevo 30 anni e ricordo una giuria incredibile formata da Luca Bigazzi, Francesco Munzi, Alessandro Rais, Gianfranco Pannone e Curzio Maltese, che mi assegnarono la Menzione Speciale per il mio primo documentario Welcome Bucarest. Poi quel medio metraggio si è trasformato nel primo frammento del documentario di lungometraggio Fratelli d’Italia (2009), che a mia volta ho sviluppato in Alì ha gli occhi azzurri, film di finzione del 2012. Tutto nasceva da un progetto di educazione all’audiovisivo rivolto alle scuole superiori e dal mio desiderio di affrontare attraverso la storia dei due giovani Alin e di Nader, rispettivamente un rumeno e un egiziano, la questione appena nascente del multiculturalismo in Italia. Dopo Wolf, un mio documentario del 2013, ho sentito il bisogno di lavorare sull’adolescenza femminile ed è nato Fiore, film di finzione, che ho girato mentre montavo la serie di Gomorra. Quindi sono arrivato alla Paranza dei bambini, che considero un primo punto di approdo del mio cinema, al confine tra finzione e documentario. Salina mi ha portato fortuna”.

In una delle foto che ti ritrae al Salinadocfest sei alla chitarra con Serafino Murri e Alberto Crespi. Nei tuoi film componi o collabori alla composizione delle colonne sonore, come ne La Paranza dei bambini per cui hai scritto la musica originale con Andrea Moscianese. Che rapporto hai con la musica?

“Paradossalmente c’è più musica nei miei documentari che nei miei film di finzione. Ne La Paranza dei bambini ci sono solo quattro interventi musicali, in Fiore cinque, e in Alì appena tre. Nei documentari uso più musica. Forse perché nei film di finzione la musica è quella che ascoltano i protagonisti, e spesso coincide con la presa diretta o con la sottolineatura di un loro particolare stato d’animo. Nei documentari, invece, che per me sono documentari fortemente soggettivi o narrativi, la musica mi serve per dare ai fatti e ai personaggi che mostro la forma del racconto e per questo ne utilizzo molta di più. Come in Fratelli d’Italia e Wolf, dove la realtà per assumere una forma narrativa ha bisogno dell’intervento della musica.

Ne La paranza dei bambini racconti dall’interno un gruppo di adolescenti delle periferie napoletane che hanno perduto l’innocenza. Con una tenerezza introspettiva insolita e controcorrente rispetto al modello Gomorra, riesci a trasfigurare la cronaca in epica, con una commozione direi rosselliniana. Che rapporti hai con il realismo e con la tradizione del cinema italiano?

“Non volevamo rifare Gomorra, nonostante la mia grande ammirazione per il film di Garrone, e mentre scrivevamo non abbiamo mai pensato alla serie, a cui pure ho lavorato. Il nostro sguardo voleva essere empatico, non oggettivo. Durante la scrittura del film sono stato guidato dalla sequenza finale di Germania anno zero, uno dei miei film di riferimento come cineasta e come spettatore. Avevo dinanzi agli occhi la camminata finale di Edmund, che, aggirandosi tra le macerie di Berlino, prima di compiere il tragico atto che lo porterà al suicidio, prova a giocare con un pallone che ha incrociato per la strada dirupata. Ma il gioco non gli riesce più. Ha perso l’innocenza, proprio come i personaggi del mio film, che ho amato e continuo ad amare”.

Giovanna Taviani