Giovanna-Taviani-Inno-al-documentario

Trovo molto coraggiosa l’iniziativa della 25esima ora di aprire uno spazio al documentario. Che in Italia sia nata – e non solo da oggi – una generazione di documentaristi di alto livello è un dato di fatto. Il problema, come sempre, è la visibilità.

Siamo uno dei pochi paesi in Europa e nel mondo (sono stata da poco in Brasile, e vi assicuro che in quanto a distribuzione sono all’avanguardia) che si rifiuta di investire su un genere sempre più in fermento e di garantire una distribuzione ai nostri documentari. Si dice: il pubblico ha bisogno di altro, il documentario è un genere di nicchia per cinefili, il cinema deve fare sognare ed evadere dalla realtà. Per questo NO AL DOCUMENTARIO.

E allora cominciano le peregrinazioni estenuanti del popolo dei documentaristi alla ricerca di qualcuno che finanzi il proprio progetto: talvolta è un editore, e per di più specializzato nella scolastica, come nel mio caso, talvolta sono forme di autofinanziamento, talvolta qualche produttore giovane indipendente (uno di questi Amedeo Bacigalupo della Nuvola Film), abbastanza folle per decidere di rischiare. Una volta dato alla luce il tuo “bambino”, entri nell’incubo di non poterlo mostrare agli altri. A parte i soliti Festival, dove i soliti documentaristi si fanno da pubblico a vicenda, la maggior parte delle nostre opere va a finire nei salotti di casa degli amici, in qualche centro sociale, o, per chi è più fortunato, in un cineclub o in una sala universitaria.

Il problema è che si considera ancora il documentario come un sottogenere informativo che ha poco da spartire con il cinema. E si dimentica che Ivens, Flaherty, De Seta, per fare solo alcuni grandi nomi di esperti del genere, hanno “documentato” la pesca dei tonni o il sibilo del vento sfruttando fino in fondo le potenzialità espressive del linguaggio cinematografico: la fotografia, il montaggio, il suono. Voglio dire che si può “stare addosso alla realtà” – prerogativa zavattiniana del documentario, che mai come oggi si vendica sui media e sull’informazione spettacolarizzata – anche “raccontando una storia”, con un proprio punto di vista personale, un intreccio narrativo, uno sguardo. E lo sguardo, ben lontano dal riprodurre oggettivamente la realtà, come nel classico reportage, può essere talvolta lirico e autobiografico (penso al bellissimo Un’ora sola ti vorrei), talvolta metafisico e surreale (penso ad alcune inquadrature straniate e stranianti di Gela in Il mio paese).

Per questo ho deciso di porre come sottotitolo del “SalinaDocFest“, un festival che, assieme ad altre persone, ho organizzato quest’anno nell’isola di Salina, la dicitura: “Festival del documentario narrativo“, a sottolineare una comune tendenza, manifesta o latente, alla narratività. In tutte le opere che sono state presentate – nessun inedito, per scelta – vi è un “io” che dice “io” e che racconta una storia.

A volte il narratore è interno alla vicenda, come in Primavera in Kurdistan, dove a raccontare la primavera curda è il diario di viaggio di Akif, il protagonista; a volte è un personaggio reale a trasfigurarsi davanti alla macchina da presa, con le cadenze e i gesti dell’attore (l’allenatore di calcio in Centravanti nato o il transessuale che non riesce a diventare se stesso in La persona De Leo N.); a volte, infine, è l’autore stesso che torna nella propria terra natale, in Sicilia, per investigare dopo anni di distanza sul mistero di Provenzano, come nel Fantasma di Corleone. In tutti, comunque, l’urgenza di narrare è tale da far superare il confine tradizionale tra documentario e film di finzione. Il che spiega anche il crollo delle barriere tradizionali dei generi, che, se da una parte induce registi come Olmi e De Palma a contaminare i linguaggi nei loro ultimi film, dall’altra apre le porte delle sale a un genere da sempre screditato.

È dunque giunto il momento di dare a questa nuova forma di documentario la visibilità che si merita. Perchè se è vero che un pubblico “reale” ancora non esiste (ma ne siamo poi così sicuri?), è vero anche che un pubblico “ideale” va comunque presupposto. Che occorre, cioè, scommettere su un destinatario inesistente, ma non per questo impossibile.

È quel che abbiamo fatto dalla piazza di Santa Marina di Salina, insieme a Roberto Saviano, che nella scrittura ha realizzato un’analoga mescolanza dei generi, ma anche insieme a tanti amici registi, produttori, critici, e soprattutto insieme al pubblico dell’isola, che con la sua partecipazione e il suo lungo applauso, ci ha aiutato a mandare un appello al Ministero dei Beni culturali: “Istituite la giornata del documentario!”.

Ancora grazie, allora, al pubblico di Salina, alla 25esima ora e a tutti coloro che credono nel documentario.

Giovanna Taviani