Salina-Fughe-Approdi

Da sempre le isole Eolie sono state terre di fughe e di approdi. I cavatori della pomice fuggivano dal “male di pietra”, la silicosi. Le popolazioni isolane emigravano verso le Americhe o l’Australia per fuggire il fuoco dei loro vulcani o l’attacco della filossera sulle loro vigne, i loro capperi, il loro grano. I confinati politici escogitavano piani di evasione via mare, come Emilio Lussu e Carlo Rosselli, che una notte d’estate, a Lipari, misero in atto una delle fughe più beffarde contro il regime fascista. Ma furono anche, queste, isole di rifugio e di approdi.

Qui tornavano i novelli sposi emigrati nel mondo, per conoscere le giovani mogli sposate per procura. Vi approdavano i personaggi legati alle pieghe oscure della politica in Europa, che si nascondevano ai piedi dei vulcani per cercare un nuovo modo di vivere. E vi approdavano anche i grandi maestri del cinema, che misero piede su queste isole per accendere le loro fantasie.

È forse per questo che abbiamo scelto “Fughe e approdi” come titolo per la seconda edizione del Concorso Internazionale del SalinaDocFest, dedicato, ancora una volta, all’esplorazione e al racconto del nostro paese.

È l’approdo del giovane Edison in Puglia (Sognavo le nuvole colorate), in un viaggio della speranza dall’Albania a bordo di un gommone di profughi; o di Alin “il rumeno” in una scuola romana di Ostia, alle prese con la difficile integrazione in classe (Welcome Bucarest). È la paura del mare dei clandestini di Dakar, che ogni giorno si imbarcano su fragili piroghe di legno per raggiungere le coste d’Europa (Barcelone ou la mort); ma è anche la testimonianza oculare di Dag (Come un uomo sulla terra), che, approdato in Italia dall’Etiopia per fuggire la repressione politica del proprio paese, decide di dar voce ad alcuni connazionali per raccontare il loro terribile viaggio attraverso la Libia e fare luce sugli accordi segreti tra l’Italia e Gheddafi.

E sono ancora le fughe interiori di Patrick (Wie Ich Bin), serrato nel suo silenzio “come un eremita su un’isola”; o gli approdi metaforici in terre prosciugate dal dolore, in cui non vi è più posto per il pianto, ma solo per la dignità della testimonianza: quella di chi ha visto morire davanti agli occhi i propri figli, nel perpetuo conflitto tra Palestina e Israele (Madri), o di chi ha portato a spalla le bare dei compagni morti in fabbrica mentre svolgevano il loro lavoro (ThyssenKrupp Blues).

Un paese estraneo, che compie crociate sante contro le coppie di fatto e dimentica i principi basilari della nostra Costituzione, come quello della laicità dello Stato e del dovere della solidarietà, ovvero dell’amore e del rispetto nei confronti del prossimo (Improvvisamente l’inverno scorso); una comunità sprofondata nell’arcaico dei tempi, dove il sesso è peccato, l’omosessualità una devianza, l’onore l’unico valore da tramandare (Provini d’amore). Di fronte a una realtà come questa, una delle strade percorribili sembra essere ritirarsi dal mondo e osservarlo da fuori con occhio straniato.

È la strada percorsa da Pinuccio il becchino (Pinuccio Lovero. Sogno di una morte di mezza estate), un dimissionario dalla vita di pirandelliana memoria, devoto al culto dei defunti. Un “paese di spaesati”, lo avevamo definito lo scorso anno. Oggi diciamo un paese di eterni emigranti, che hanno fatto del trapianto e del naufragio la propria condizione esistenziale e il proprio motore di ricerca.

D’altronde, la condizione del migrante è propria dell’intellettuale del terzo millennio, che vede nella scrittura una nuova casa e nella lingua un’ancora di salvezza per rivendicare una propria identità. Sono gli scrittori del Maghreb emigrati in Europa, che vivono la scrittura come testarda traccia di sopravvivenza delle proprie origini, le proprie abitudini, le proprie radici. Sono gli intellettuali in esilio sparpagliati per il mondo; ma sono anche i nostri scrittori meridionali che hanno abbandonato la propria terra per trasferirsi al nord (come narra nel racconto inedito dedicato al festival, Vincenzo Consolo, quest’anno premiato dal Comitato d’Onore).

Oggi, per ciascuno di loro, scrivere significa riattraversare con occhi asciutti quella distanza e quel mare che li separa dai loro paesi natali. Un mare che un tempo si ergeva come crocevia di culture e di uomini e che oggi è diventato, per la cronaca di tutti i giorni, muro di pianto e cimitero di morti.

Barriera che separa; ma anche luogo della memoria che innesca il ricordo di altri viaggi (ben documentati nella mostra Sicilian Crossings), come quello che i nostri padri e i nostri nonni fecero dall’Italia verso le Americhe, l’Australia, l’Argentina, e non ultimo il Brasile (da quest’anno gemellato con il nostro Festival), terra, anche questa, di fughe e di approdi, di espatri e di esili. Così come l’Africa terra dilaniata dalla guerra, la fame e l’Aids, del racconto di Franco Brogi Taviani (Forse Dio è malato).

È questo dramma del nostro tempo che il cinema oggi intende raccontare, in una mistione tra fiction e non fiction, cinema documentario e cinema di finzione che sembra il trait d’union di questa nuova generazione.

Perché una nuova generazione è nata e con questa l’ossessione di tornare a raccontare il nostro paese e sottrarre la realtà al monopolio della TV, per riscattarla, direi quasi vendicarla. All’anestetizzazione delle emozioni e alla fine delle reazioni si risponde con la rabbia dello stile e la fantasia del linguaggio. Perché raccontare la realtà non significa raccontare necessariamente storie vere; significa anche trascendere la realtà in modo soggettivo, surreale, metaforico.

Penso allo sguardo metafisico inchiodato sulle macerie della “monnezza” di Napoli in Biutiful cauntri di Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio e Peppe Ruggiero; o al racconto diaristico di Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi; o ancora alla ricostruzione soggettiva e personale operata sul materiale storico di In fabbrica di Francesca Comencini; fino al viaggio surreale, attraverso il nostro belpaese, di Pippo Delbono.

Film che dimostrano che il documentario è uno strumento efficace soprattutto quando è soggettivo; quando ha uno sguardo e un punto di vista personale, in grado di raccontare il reale e, insieme, l’interpretazione del reale. Forse è anche per questo che abbiamo scelto Pasolini nella sezione Reperti di memoria: per dichiarare una rinnovata passione di essere al mondo e di stare dentro le cose. Perché comprendere la realtà significa farne parte, calarvisi dentro con il proprio corpo, il proprio vissuto, il proprio bagaglio di esperienze.

Se fino a ieri l’urgenza era riappropriarsi della realtà, che decenni di pensiero debole avevano dato per estinta, oggi la priorità è riorganizzare un nostro punto di vista sul mondo; ricostruire un comune orizzonte di senso, per approdare ad una nuova terra. È solo un punto di partenza, ma può portare molto lontano. Il SalinaDocFest è su questa strada.

Giovanna Taviani