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Daniele Ciprì

Durante questi mesi di quarantena Giovanna Taviani ha proposto a “Repubblica” (edizione Palermo) una nuova rubrica dal titolo “Conversazioni in Sicilia sul linguaggio del cinema” dedicata a grandi maestranze siciliane (direttori della fotografia, fonici, montatori), che hanno fatto strada nel mondo del cinema e vivono lontano dalla loro terra di origine.

Si inizia con Daniele Ciprì, palermitano doc, uno dei maggiori direttori della fotografia di oggi (tra i riconoscimenti citiamo almeno l’ultimo David Donatello alla Migliore Fotografia per Il primo Re di Matteo Rovere, 2020, e quello per Vincere di Marco Bellocchio nel 2010), nonché sceneggiatore e regista (“È stato il figlio”, del 2012, tratto dal romanzo omonimo di Roberto Alajmo, con Toni Servillo, ha vinto il contributo tecnico per la fotografia alla 69° Mostra del Cinema di Venezia). Insieme a Franco Maresco, è autore di Cinico TV, serie A degli anni 90 che ha rinnovato il linguaggio televisivo portando il cinema dentro le case delle persone.

L’intervista, in edicola lo scorso 10 maggio sull’edizione palermitana di “Repubblica”, è qui pubblicata in versione integrale.

Intervista a Daniele Cipri di Giovanna Taviani

Questi mesi di “reclusione” ci hanno portato a rielaborare i nostri concetti di tempo e spazio, esterno e interno. Quale immaginario ha creato questa quarantena? Assomiglia allo scenario apocalittico di Cinico TV, come ha dichiarato da Maresco, o ha qualcosa di diverso?

Intanto una premessa. Franco cita Cinico TV, che fa parte della storia, le bombe di Falcone, i morti di mafia, una tragedia che noi abbiamo raccontato in modo grottesco. Ma in quell’immaginario, prima ancora che la realtà, noi evocavamo il cinema. Un film che mi aveva segnato e che aveva anticipato quello scenario di anni era L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956 ndr). Io mi ispiravo ai film di fantascienza, poi ho scoperto Antonioni, Tarkovskij, Kubrick. Quando in questi giorni mi hanno chiesto di fare delle riprese TV per fotografare col mio immaginario Roma deserta, mi sono trovato a disagio. Perché se questo momento io ce l’ho, non lo immagino. Un regista deve anticipare e immaginare. Se io ho davanti l’apocalisse, non riesco a raccontarla. La costruzione di una immagine avviene nel momento in cui non ce l’hai, altrimenti fai telegiornale. La Palermo di Cinico TV era una città post-apocalittica internazionale, che ci siamo inventati osservando la realtà, ma anche guardando i film di David Lean e di Fritz Lang.

In questi mesi per capire quello che stava succedendo ho riascoltato tutto Bach e Mozart, mi sono rivisto tutto Ford e tutto Hitchcock. E ho rivisto Metropolis, un film di una modernità incredibile, sullo spazio contemporaneo di oggi, sull’intreccio tra potere e umanità.

– Guardati un film vecchio e riattiva l’immaginario -, dico ai miei studenti quando mi chiedono pareri su Netflix e sulle serie televisive. L’immagine senza anima non serve. Kubrick faceva film di fantacoscienza, come li definisco io, film che formano la coscienza dei giovani di oggi.

Sei di Palermo ma vivi a Roma, dove insegni alla Rufa e alla Griffith. Cosa ti manca oggi della tua città?

Palermo io ce l’ho nel cuore. Per questo la rimetto sempre nei miei film, nella gestualità dei personaggi, nella mimica, che è più importante della parola, perché è universale, come la musica. Noi siciliani abbiamo una marcia in più, nonostante quel che dice Feltri. Forse perché il siciliano (ma direi l’uomo del sud in generale) è nato disperato e per questo ha sviluppato un’umanità che aggiunge tanto. La rivedo nei film di Scorsese, che è di Polizzi Generosa, come scoprimmo io e Maresco quando lo intervistammo per la prima volta. Lui parla sempre du pane cu u sugo. Anche la mimica di De Niro è palermitana. Ultimamente ho rivisto Il Padrino in lingua originale. Il modo di guardare di De Niro è palermitano. I fermi macchina di Scorsese sono palermitani. Mi manca Palermo e la Sicilia in generale.

Nello Lo zio di Brooklyn (95) e in Totò che visse due volte (98) mettevate in scena una Palermo blasfema, grottesca e apocalittica. Oggi Palermo ha cambiato volto ed è la protagonista di un Rinascimento culturale. Sei d’accordo?

Noi eravamo palermitani che parlavamo della nostra città col nostro immaginario. Volevamo fare i cineasti in una città che ci regalava tanto. Ci offriva luoghi incredibili e ci regalava un’umanità come nessun altro luogo avrebbe potuto. Noi ci abbiamo giocato con quella Palermo. Eravamo contro tutti.  Non si salva una città solo perché fai l’antimafia. Eravamo pressati, disperati, volevamo solo fare il cinema.

Passiamo al cinema italiano. Che ruolo hanno avuto sul tuo immaginario e quanto hanno agito sulla tua formazione cineasti come Pasolini, Ferreri, Bellocchio?

Bellocchio principalmente per i Pugni in tasca. Lo vidi in un cineclub e mi sconvolse. – Ma questo chi è? – mi domandai -. Bertolucci era più leggero, più Nouvelle Vague. Bellocchio si incontrava con Pasolini, passando per gli americani alla Orson Welles e arrivando a Dreyer. Pasolini era la periferia, per me era più hard, più vicino alla mia strada. In Totò lo evoco con Bach, perché io amo evocare, non citare.

Con Enzo domani a Palermo! (1999) e con Come inguaiammo il cinema italiano (2004), dedicato a Franchi e Ingrassia, vi cimentate con il documentario. Che cosa vuol dire per te raccontare il reale e che rapporto c’è tra reale e finzione?

Zavattini diceva che il cinema italiano è finito nel momento in cui l’autore ha smesso di prendere il tram. Per me che vivo a Roma prendere un bus significa guardare la realtà, rubare gli sguardi della gente, i loro stati d’animo, le loro emozioni, e portarli dentro il mio cinema. Poi mi posso inventare un personaggio, come è successo con Giuseppe Paviglianiti, il petomane dai modi gentili, in Cinico TV: lo avevo conosciuto alla fermata di un autobus, faceva il cantante nel programma televisivo “Pomofiore”, in un periodo triste della sua vita in cui si era separato.

Cinico TV di Ciprì e Maresco
Cinico TV di Ciprì e Maresco

Era catatonico, lo abbiamo raccontato, ed è diventato un mito, elegante nella sua disperazione. Io sono un documentarista, ma faccio il cinema. Con Enzo domani a Palermo! abbiamo documentato una vita, facendo il cinema.

In Viva Palermo, Viva Santa Rosalia (2005) vi siete incontrati con i due più grandi uomini di teatro di Palermo: Cuticchio e Scaldati. Che rapporti hai con il teatro di narrazione?

Dal-docucorto-Era-una-volta-di-Daniele-Cipri
Dal docucorto Era una volta di Daniele Ciprì dedicato a Mimmo Cuticchio

Fondamentale per me. Io sono cresciuto con il cunto. Da piccolo vedevo gli spettacoli di Mimmo, poi ebbi l’onore di conoscerlo di persona, insieme al padre, alla cooperativa C.L.C.T di Sergio Gianfalla e Giovanni Massa, ex collaboratori di Tornatore. Prima di quel periodo, facevo il fotografo di matrimoni con mio fratello. Mio padre riparava le macchine fotografiche, aveva una bottega in Via Sanpolo. Io avevo 14 anni e mi sono formato a bottega da lui. Poi a 18 anni mi arruolai come bersagliere a Persano, nel napoletano, e divenni fotografo ufficiale dell’esercito. Al Giffoni Film Festival, in Valle Piana, ho conosciuto il set e ho incontrato Truffaut, il mio  Kubrick francese. Ma la mia vera formazione è avvenuta con Franco Maresco.

Nel 2008, quando c’è stata la separazione dopo 25 anni di collaborazione, ho sofferto molto. Volevo liberarmi di un passato, senza rinnegarlo. Ero in crisi,  non volevo fare più nulla. E lì è arrivato Mimmo. Insieme a lui, e alla mia compagna Miriam Rizzo, ho realizzato un docucorto, Era una volta, per raccontare il viaggio con Aladino. Ho deciso di “fotografare” quel viaggio dal punto di vista di un pupo, come un bambino. Quel corto mi ha salvato. Dopo poco mi ha chiamato Bellocchio per Vincere. Io ero in dubbio, era un film complicato, mi dovevo sfidare con le immagini di repertorio. Ma alla fine ce l’ho fatta e ho cominciato il mio percorso da solista.

Nel 2012 affronti la tua prima regia con È stato il figlio, tratto dal romanzo di Alajmo. Il cinema italiano stava cambiando dal punto di vista formale e ricordo che nel film mi colpì proprio la trasformazione delle parole in luce. Sei più affascinato dal regista o dal direttore della fotografia?

Quando dirigo un film spesso litigo con me stesso. Di solito come regista concepisco il film nel posto in cui è ambientato. Ma come direttore della fotografia reinvento quei luoghi con il mio immaginario.

In quel caso mi chiesero di scrivere la sceneggiatura a Roma e io dissi di no. Volevo essere in Sicilia. Capii come dovevo girare quel film alle poste, ascoltando il racconto frammentato di uno che intratteneva un vicino in fila, e poi un altro, ricominciando sempre da capo. Nel frattempo guardavo i luoghi e costruivo il film nel mio immaginario. Volevo il ferro, i cieli, la ruggine, un quartiere piccolo, non la Kalsa coi palazzi enormi che non entravano nell’inquadratura. Dovevo trovare il mio modo di inquadrare quella storia e quella famiglia. Pensai di andarla a trovare in Polonia, dove le case popolari sono basse. Alla fine ho girato a Brindisi, perché Marco Dentici, lo scenografo, ha trovato lì i palazzi che entravano nell’inquadratura. Sono andato li e ho ulteriormente trasformato quei luoghi con dei filtri. Dopodiché dovevo trovare i pupi, gli attori, le facce, che si devono muovere come i miei familiari del passato. Incollavo al film il grottesco della mia vita. Ho un immaginario che non appartiene a nessuna città. Ho bisogno di disegnare il mio immaginario, di reinventarlo.

A cosa hai lavorato in questo periodo di quarantena?

Sto scrivendo un soggetto con la mia compagna sul rapporto padri e figli. L’idea mi è venuta nel 2018 sul set di Simone Godano, Croce e delizia, parlando con Alessandro Gassman. Mi raccontava di suo padre che lo portava a teatro e gli faceva conoscere i manovali del cinema.

Mi sono chiesto come potesse essere il rapporto di un figlio con un padre così forte e come potesse un figlio non sentirsi schiacciato. Ho ripensato al rapporto con mio figlio, che ho adottato in Ucraina con la mia ex moglie. Ha 20 anni, fa il musicista e vive a Palermo. Un giorno mi chiese aiuto perché era in crisi con la fidanzata. Entrava in gioco il mio ruolo di padre. Come risposta decisi di raccontargli la mia prima crisi d’amore, che era una crisi ancor più disperata. Così è nata l’idea del film, la crisi di un padre che non riesce a dare delle risposte. Io sono un regista antico, la contemporaneità mi interessa poco. Il film lo produrrà Matteo Rovere (con cui ho girato il Primo Re). Non riuscivo a finirlo, ma questi mesi di quarantena mi hanno aiutato a concentrarmi. Il prossimo anno tornerò a girare.