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Salina, il laghetto di Lingua.

Un paese di spaesati: è questa la geografia che i nove documentari selezionati per la prima edizione del SalinaDocFest sembrano configurare.

Chiamata ad esprimersi attraverso il mezzo cinematografico su Il mio paese, titolo zavattiniano ripreso recentemente dall’omonimo documentario di Daniele Vicari, premio David di Donatello 2007, una nuova generazione di cineasti punta lo sguardo sulle macerie di un paese in disfacimento; un paese che non esiste più.

In comune le diverse opere hanno il senso di spaesamento degli sradicati, di chi non ha più, a volte una comunità, a volte un luogo, di cui sentirsi parte, in cui riconoscersi. È l’immigrato catapultato nelle grandi capitali di Europa (Welcome Europa), o il transessuale cui non è permesso diventare quello che realmente “è” (La persona De Leo N.); è la tragica libertà conquistata al prezzo della deviazione mentale (Grido), o lo straniamento del barbone che ha scelto di vivere sui treni notturni (Il Passaggio della linea).

È, ancora, la rabbia degli adolescenti senza volto del carcere minorile di Napoli (Nisida), o la fallimentare parabola di Carlo Petrini nel mondo del calcio corrotto (Centravanti nato), o il dire “esistiamo” dei gitani di Barcellona (Can Tunis). Ma è anche il percorso di chi allo spaesamento si ribella, rivendicando la propria identità nelle montagne curde (Primavera in Kurdistan), o tornando in Sicilia, nella propria terra natale, per investigare, dopo anni di assenza, sul mistero di Provenzano (Il fantasma di Corleone).

La comune reazione allo spaesamento, di questi nuovi documentaristi, è una chiara assunzione di responsabilità, che si manifesta attraverso un preciso sguardo che indaga e racconta. A volte il narratore è interno alla vicenda (a raccontare la primavera curda è il diario di viaggio di Akif, il protagonista); a volte è il personaggio reale – sia esso un transessuale o un calciatore – a trasfigurarsi davanti alla macchina da presa con le cadenze e i gesti dell’attore.

In tutti, comunque, l’urgenza di narrare è tale da far superare il confine tradizionale tra documentario e film di finzione. Welcome Europa si apre con il primissimo piano di un volto, quello di un immigrato appena giunto a Marsiglia da Istanbul; e poi sono i suoi occhi a raccontare, con vere lacrime, il panico dell’arrivo nel mondo sconosciuto, mentre la sua voce fuori campo dà forma, in maniera antinaturalistica, ai pensieri (“Cara madre, mi manca il mio villaggio…”).

In Il Passaggio nella linea la macchina da presa si muove tra gli scompartimenti affollati, incrocia le facce stanche, mentre le voci si accavallano, i pensieri si confondono con il sibilo dei freni sulle rotaie: parlano sottovoce di disoccupazione e precariato, propri di un paese di apolidi, dove la casa è ormai solo un miraggio e le carte geografiche, dei buchi neri che divorano i sogni. Modi di narrare tipicamente cinematografici.

Cose come – in Grido – il ritorno del protagonista nel fabbricato ormai vuoto del manicomio di Aversa: a raccontare l’elettroshock non è, come probabilmente ci aspetteremmo da un documentario tradizionale, l’immagine di un letto di contenzione arrugginito, ma, appunto, “il grido” di dolore di Bobo, su cui la macchina da presa sosta oltre il tempo necessario a restituire la memoria del dolore, ma quanto basta a dare un senso alla scena successiva: di nuovo discreto e lontano, lo sguardo inquadra Pippo e Bobo che, piccoli nelle grandi stanze vuote, se ne vanno tenendosi per mano.

Opponendosi al reportage comunemente inteso a una falsa pretesa di oggettività, lo sguardo dell’autore è sempre presente e non perde mai di vista il destinatario del proprio racconto; sia che, come Lara Rastelli in Nisida, resti dietro la macchina da presa e faccia trapelare la sua passione conoscitiva chiedendo, domandando, esplorando; sia che, come Marco Amenta in Il fantasma di Corleone, si metta in campo direttamente, con un io che dice “io”.

Ma non basta. L’assunzione di responsabilità, nel farsi narrazione e sguardo, non si traduce solo in una scelta estetica. È urgenza di incidere sulla realtà; tornare a sporcarsi le mani, mettersi in gioco con un proprio punto di vista.

È, insomma, schierarsi per determinare un cambiamento, perché, come afferma Roberto Saviano – che nella scrittura ha realizzato un’analoga mescolanza di generi -, i gesti conoscono un’elasticità che i giudizi etici ignorano. È allora giunto forse il momento di dare a questa nuova forma di documentario la visibilità che si merita. Perché se è vero che un pubblico reale ancora non esiste, è vero anche che un pubblico ideale va comunque presupposto. Che occorre scommettere su un destinatario inesistente, ma non per questo impossibile.

Giovanna Taviani