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Agostino Ferrente

Selfie è un film su due ragazzini, Alessandro e Pietro. Hanno sedici anni e vivono nel quartiere Traiano di Napoli, un quartiere emarginato, uno di quei quartieri raccontati non sempre con rispetto dal nuovo cinema italiano e dalle nuove serie televisive. Un film – da oggi nelle sale di tutt’Italia – dove non si racconta la mala vita, ma dove viene mostrata la vita, la vita quotidiana di due giovani che si riprendono con un telefonino cellulare.

Il regista è Agostino Ferrente, membro del Comitato scientifico del SalinaDocFest, che porterà Selfie –  presentato quest’anno nella sezione Panorama del Festival del Cinema di Berlino – alla nostra XIII edizione.

Agostino Ferrente

Agostino Ferrente è un nostro amico di lunga data. Ha partecipato al Festival fin dalla sua prima edizione con L’Orchestra di Piazza Vittorio, e ha anche vinto il Tasca d’Oro nel 2012 con Le Cose Belle, da lui diretto assieme a Giovanni Piperno. In attesa di incontrarlo a Salina a settembre, l’abbiamo sentito per parlare del suo film.

Come ti sei trovato a tornare a girare a Napoli? E come hai trovato i protagonisti della tua storia?

Non volevo più fare documentari e soprattutto non volevo farli a Napoli, anche perché mi vergognavo di fare un altro film su questa città dopo Gomorra e dopo tutti gli altri film che sono stati realizzati su questo filone, ma mi sono detto che questo cinema racconta solo un nuovo immaginario collettivo: la cartolina anni ‘50 con il mandolino e la pizza ha ceduto il posto ai palazzoni della periferia. Ho cambiato idea perché ho potuto fare il film vivendo in quei quartieri. Non sono andato a cercare ragazzi che volevano diventare filmmaker, ho provato a frequentare qualche scuola di cinema dove però trovavo solo nerd smanettoni, non personaggi che mi emozionavano. E io volevo personaggi che fossero sia attori sia in grado di farsi le riprese con il cellulare – uno strumento che sanno usare tutti – con affianco la presenza costante del regista che li dirigesse. La scelta del cellulare è stata parte di un percorso che è nato gradualmente. Volevo abolire la figura della telecamera e del filtro, non mi interessava fare le riprese, sono più bravo a provocare i personaggi, a creare relazioni. In questo film per la prima volta i personaggi sono cameramen di loro stessi. Guardano se stessi in un monitor e recitano come fossero davanti a uno specchio, cosa che gli ha permesso di restare concentrare sulla loro vita. Ho suggerito di non mettersi davanti alla telecamera in primo piano, ma di posizionarsi di lato, in modo da poter guardare sullo schermo loro stessi e la vita che si svolgeva alle loro spalle, senza impallare lo sfondo. Gli attori, comunque, sono solo interpreti, sono io che mi assumo tutte le responsabilità, narrative, estetiche, tecniche. Vedevano dietro di loro, ma quello che non entrava nelle loro inquadrature era il loro futuro, quello che c’è davanti, un futuro solamente evocato. È un po’ la metafora dell’Infinito di Leopardi, raccontata da uno dei due ragazzi, solo che mentre per Leopardi è metafora di un pessimismo esistenziale, per i ragazzi è l’immagine di un pessimismo sociale. Il muro è il muro del quartiere, quello che li separa dalla città. Loro non si sentono parte di Napoli, eppure, assieme a tutti gli altri nella loro condizione, sono il 70 per cento di Napoli. Paradossalmente non sono cittadini della propria città.

I ragazzini si guardano, guardano le loro strade e i loro amici, guardano il regista e soprattutto guardano la loro vita. Una delle caratteristiche dei tuoi personaggi è quella di essere sempre dei resistenti …

Molti genitori non possono soddisfare i bisogni dei loro figli, bisogni che spesso nascono con l’età ma che in fondo sono indotti dal consumismo o dal marketing: l’iphone, il motorino, il gioco, il maglioncino nuovo. Sarebbe facile per loro andare a spacciare e guadagnare in un giorno quello che loro padre guadagna in un mese di lavoro. È una lotta impari: puoi andare a scuola o puoi andare a guadagnare soldi facili. Ecco perché mi innamoro di quelli che chiamo i piccoli eroi, perché alzarsi alle sei di mattina per andare a fare il garzone in un bar che porta il caffè in equilibrio sul motorino, per guadagnare in una settimana quello che un tuo coetaneo che spaccia guadagna in un giorno, per me è eroico. È eroico se lo fai in un quartiere borghese di Roma, è iper eroico se lo fai in uno di questi quartieri. Anche per questo per me è più etico, come documentarista, raccontare storie di ragazzi che resistono, piuttosto che dare il cellulare in mano ai ragazzi per riprendere di nascosto chi spaccia o delinque. Devi creare un rapporto di fiducia con i tuoi personaggi, un rapporto di complicità e consapevolezza. Ma soprattutto se tu, pensando di fare un servizio giornalistico, un film scabroso, filmi dei ragazzi di 14 anni che stanno commettendo dei crimini, sei un complice, se stai facendo una fiction va bene, ma se è un documentario devi fare i conti col fatto che i protagonisti prima che personaggi sono persone. Sarebbe impossibile, per me, fare un documentario così. Poi certo, ci sono quelli che camuffano la voce o i volti. Io stesso ho inserito nel film una gag in cui c’è un ragazzo che nasconde la faccia e che racconta per 600 euro come funziona il mercato della droga, che poi magari queste sono storie sono prese dai giornali, ma questa è una pagliacciata. E la mia è solo una gag.

Per Alessandro e Piero cadere nella devianza è la scelta più facile?

Ho vissuto in quelle strade e penso che tutta la distanza tra legale e illegale, tra il bene e il male è solo una nostra categoria mentale borghese. Non voglio apparire ideologico, ma per i bambini rubare è un lavoro come un altro. Da spettatore del film che ho fatto, da spettatore privilegiato, mi rendo conto che la loro chiave di lettura è la più lucida. Il boss diventa ricco ma il boss è uno e tutti gli altri sono pura manovalanza. È ovvio che per i genitori è meglio che il ragazzo abbia un lavoro normale, spacciare è un lavoro usurante, se passa la polizia ti arrestano, se passa la concorrenza ti sparano. Ognuno di loro, se potesse scegliere, ovviamente sceglierebbe una vita con il posto fisso, una vita che noi consideriamo onesta. E così il loro genitori. In fondo, quali sono le cose importanti della vita? La vita e la libertà individuale. Spacciando rischi proprio queste due cose.

I ragazzi sembra che tutto quello che sanno lo hanno imparato dalla strada. È la scuola il protagonista che manca?

Siamo in estate, la scuola fisicamente c’è ed è la scuola abbandonata dove tra l’altro ho fatto i provini. È il loro rifugio perché ci vanno in palestra o a festeggiare il compleanno, ma è significativo che una scuola così grande, e neanche brutta, è inutilizzata, che è un po’ una metafora anche di come il Sud non sappia utilizzare le proprie potenzialità. In maniera più ampia, il discorso per me più significativo è che una famiglia senza strumenti culturali o economici, quando si trova di fronte ad un ragazzo o un figlio in difficoltà non può aiutarlo. Se gli danno i compiti a casa io che ho studiato posso aiutarlo o pagargli le ripetizioni. Le famiglie che vivono in questi quartieri o nelle altre periferie ghetto, cioè la maggioranza di queste famiglie, non hanno gli strumenti per aiutarlo e non sanno come fare. C’è un esempio nel film con il papà che fa il pizzaiolo che va a lavorare fuori dal paese una volta a settimana, e dice che ha preso la terza media venti anni fa e se il figlio gli chiede come fare i compiti, lui non sa che fare. Questi ragazzi se si trovano di fronte a delle difficoltà abbandonano la scuola. Il tasso di abbandono scolastico a Napoli e dintorni è uno dei più alti di Italia. Tutti questi ragazzi hanno abbandonato la scuola dell’obbligo. Se ti fai un giro in carcere, il 90% delle persone viene da quegli ambienti, e ovviamente non è un problema genetico, ma è ovvio che se non ci sono le istituzioni, se queste persone vengono abbandonate e non ci sono centri aggregativi, la sola possibilità è la strada, i motorini e le sale da biliardo. Paradossalmente se tu chiedi a loro cosa è lo Stato, ti rispondono la polizia, i carabinieri. Vedono cioè lo Stato solo come repressione, repressione militare. E questo ha molto a che fare con l’assenza della scuola.

Oggi il tema della scuola è uno dei temi centrali nel nostro Paese. E tu racconti anche un sistema di valori che la scuola non riesce a trasmettere …

I loro valori sono i valori della scuola della vita. Poi la scuola in quanto tale è un soggetto ampio e ci sta anche il professore che da tutto se stesso ma viene risucchiato dalla burocrazia e non può fare quello che vorrebbe fare. Pensiamo ai tanti maestri che sono stati raccontati anche nella storia del cinema, talvolta in maniera fin troppo romantica, il maestro eroe (beato il paese che non ha bisogno di eroi). E non puoi chiedere a tutti i maestri di immolarsi. La scuola è uguale in tutta Italia. Sicuramente, io personalmente reputo classista sovraccaricare di compiti i ragazzi, perché non tutti a casa hanno le stesse possibilità e possono affrontare questi compiti, e se la scuola è un diritto costituzionale, come la salute, bisognerebbe permettere tutti di usufruirne. E parlo dei compiti, del business delle ripetizioni, del costo dei libri. Ma questa è una critica che faccio come cittadino, come documentarista invece, avendo lavorato molto intorno a Napoli, mi rendo conto che la scuola è assente, e che ce ne vorrebbe di più.

Rispetto a Le cose belle, con cui hai vinto a Salina il Premio Tasca d’oro nel 2012, cosa hai notato di diverso nei ragazzi che hai coinvolto nel tuo progetto?

Mi ha sorpreso molto di questi ragazzini l’autoironia e la consapevolezza. Quando con Giovanni Piperno andavamo negli anni Novanta con la telecamera in quelle stesse zone a chiedere se potevamo fare interviste, venivamo visti come qualcosa di istituzionale. Da quando ci sono i social, invece, è cambiato tutto, e questi ragazzi hanno acquisito una consapevolezza diversa, e infatti non volevano che si speculasse sulla loro miseria. Su Le cose belle abbiamo raccontato un confine, non era un titolo sarcastico. Paradossalmente quei quattro ragazzi, che provenivano da zone diverse di emarginazione, erano precursori, e nonostante tutto, una volta diventati adulti, sono riusciti nel miracolo di non cadere nella tentazione della devianza. E questo non era scontato.

Se in primo piano ci sono Alessandro e Pietro, sullo sfondo del film c’è la tragica vicenda di Davide Bifolco, anche lui un ragazzino di sedici anni, ucciso da un colpo di pistola sparato da un poliziotto. Come hai raccontato questa vicenda?

Volevo fare un film dove non ci fosse il controcampo. Il controcampo, infatti, si crea in maniera dinamica, è frutto di un movimento di piano sequenza. Il vero controcampo sono le immagini delle telecamere di sicurezza, che sono il vero presidio, il vero cinema della realtà. Mentre credo che non esiste un documentario di osservazione, perché c’è sempre la presenza del regista che fa il suo mestiere e ricostruisce il vero, penso spesso alla grande forza delle telecamere di sicurezza. Se io volessi raccontare il presente oggi, lo farei solo con queste telecamere, poi è ovvio che al montaggio puoi cambiare tutto, puoi manomettere, perché non c’è una verità assoluta, ma per usare una terminologia semiotica, il primo passo dove il significante ti arriva più pronto in attesa di divenire significato è con la telecamera di sicurezza. La telecamera di sicurezza è come il punto di vista di Napoli, è la soggettiva della città E proprio attraverso le telecamere di sicurezza sono riuscito a raccontare la storia di Davide Bifolco, il ragazzino ucciso dal poliziotto, usando immagini di repertorio, vere, metafora del fatto che quella situazione sarebbe potuta accadere a qualsiasi altro ragazzino presente nel film.

Antonio Pezzuto