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Maricetta Lombardo al lavoro, per gentile concessione dell'autore

Conversazioni in Sicilia N°2

Durante questi mesi di quarantena Giovanna Taviani ha proposto a “Repubblica” (edizione Palermo) una nuova rubrica dal titolo “Conversazioni in Sicilia sul linguaggio del cinema” dedicata a grandi maestranze siciliane (direttori della fotografia, fonici, montatori), che hanno fatto strada nel mondo del cinema e vivono lontano dalla loro terra di origine.

Dopo Daniele Ciprì, proseguiamo con la grandissima Maricetta Lombardo, agrigentina doc, una delle poche donne fonico del nostro cinema. Ha lavorato con registi come Kiarostami,  Martone, Sollima, e Di Costanzo. Dal 1998 è il fonico di presa diretta dei film di Matteo Garrone, come Gomorra, Dogman e il più recente Pinocchio. Ha vinto tre Nastri d’argento e per due volte il David di Donatello per il suono.

L’intervista, in edicola lo scorso 31 maggio sull’edizione palermitana di “Repubblica”, è qui pubblicata in versione integrale.

Intervista a Maricetta Lombardo di Giovanna Taviani

Intanto una domanda per iniziare: come hai vissuto Roma in questi mesi di  quarantena.

Sono stata sopraffatta dalla preoccupazione. Non mi piace la limitazione della libertà. Non poter uscire quando ti viene in mente o dover fare la spesa solo una volta a settimana.  Ho cucinato con misura. Ho cercato di non farmi mancare la camminata giornaliera, che purtroppo in questi mesi ho dovuto fare attorno al palazzo. Ma almeno respiro, vedo il sole e sento l’aria in faccia. Abito al Brancaccio di Roma e ogni mattina faccio sempre a piedi da casa mia a Trinità dei Monti, fino a San Giovanni e ritorno, sono 6 km circa e tutte le volte mi fermo a Piazza del Tritone per guardare la statua e la fontana. Amo Roma in modo smodato. Mi stupisco ogni volta di fronte alla sua bellezza.

Sei nata ad Agrigento e hai iniziato in una radio locale di musica. Da dove nasce la tua passione per suono?

Sono sempre stata appassionata di musica. Da ragazza mi chiamarono a una radio di Agrigento per condurre “Telaio magnetico”, una trasmissione musicale, una volta a settimana. Mettevo Clash, Depeche Mode, Led Zeppeling, Frank Zappa. Anche quando arrivai a Roma per fare il Centro Sperimentale, ero più attratta dalla fase del mix e con tutto ciò che aveva a che fare con la musica. Poi conobbi Bruno Pupparo [uno dei maggiori fonici di presa diretta del cinema ndr], il mio maestro, che mi fece innamorare del suono.

Nel 1990 quando eri ancora in Sicilia hai partecipato a un laboratorio teatrale che aveva tra gli insegnanti  Andrea Camilleri. Cosa ricordi di quella esperienza?

Era un corso di recitazione organizzato della Regione, a cui mi ero presentata solo per fare esperienza. Tra gli insegnanti c’erano i docenti della Silvio d’Amico e c’era anche Camilleri. Vedendomi così appassionata, uno di loro mi consigliò il Centro Sperimentale di Roma. Il giorno dopo mi spedirono il bando, a cui partecipai come fonico. Sono sempre stata interessata all’aspetto sonoro della vita, così mi feci prestare un registratore e cominciai a registrare storie rudimentali fatte solo di suoni, senza parole, repertorio, rumori, ambienti. Ricordo ancora la cassetta che mandai. Sul lato A c’erano suoni preregistrati, sul lato B ambienti dal vivo presi da me per le strade di Agrigento: “l’abbagnatore” [venditore di ricotta ndr], donne e uomini del posto. Arrivai alla posta di sabato, il giorno della scadenza del bando, ma riuscii a spedire il pacco. Mi chiamarono subito per il primo colloquio, a cui seguii il secondo. Dopo qualche tempo mi dissero che ero entrata con borsa di studio di 500 mila lire al mese.

Da dove viene il tuo amore per il cinema? Qual è stata la tua formazione?

Io ho fatto l’Accademia di Belle Arti a Agrigento, come scenografa, ma il mio amore per il cinema nasce da sempre, da quando ero piccola e mia madre mi portava a vedere Via col vento. Per me andare al cinema era un regalo, Scorsese, Bunuel, Blade Runner, che andai a vedere sul grande schermo. Io non riesco a vedere il cinema a casa. Il cinema va visto grande, insieme, in versione originale. Mi ricordo che un giorno era arrivato in Sicilia La pelle di Liliana Cavani, ma il cinema era stracolmo e io lo vidi in piedi. Oggi abbiamo quattro sale gestite purtroppo da un unico esercente. C’è una programmazione senza concorrenza, solo film commerciali. I film in lingua originale non arrivano, Loach te lo sogni, e un film come Pinocchio lo mettono nella fascia pomeridiana come film per bambini perché la sera tocca a Zalone. Ci tenevo tanto a vederlo e a farlo vedere ai miei amici, anche perché ho curato il suono, così per  protesta siamo andati a vederlo in un centro commerciale fuori Agrigento. Per fortuna esistono dei cineclub come il John Belushi costruito in una chiesa sconsacrata, che però non “suona” bene e per me tutte le volte che torno è una battaglia, per il cinema, per la città e per il tessuto culturale e sociale della Sicilia.

Che rapporto c’è tra le voci e gli sfondi? Quello che c’è tra un primo piano e un campo lungo? Quanto è importante il suono dell’ambiente in un film?

Anche i posti narrano. Io cerco di intervenire il minimo possibile. Molti colleghi puliscono troppo.  Io invece lascio ai posti lo spazio per raccontarsi senno diventa tutto uguale.  L’ambiente fa parte del posto.

Di solito si pensa che il documentario o cinema del realtà il suono sia sempre registrato dal vivo. Eppure sia Rossellini che De Seta ricostruivano il suono in postproduzione. Che rapporto hai con il genere documentario?

Io non faccio distinzione tra cinema di finzione e cinema documentario. La trovo sbagliata. Il racconto è diverso ma il regista è sempre il regista. Con Piperno e Pannone facemmo una intervista a De Seta per Scusi, dov’è il documentario? Io ero coautrice. – Le presentiamo il fonico – dissero. De Seta si alzò e mi disse: – era da tanto che volevo lavorare con lei -. Fu un vero onore per me.  Per quel che riguarda il suono, ci sono due sono due scuole di pensiero. Per me l’una non esclude l’altra. A volte scopri sul set delle soluzioni sonore che ti danno delle illuminazioni. Altre volte le scopri in postproduzione.

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Maricetta Lombardo durante una pausa sul set, per gentile concessione dell’autore.

Come avviene il dialogo con Garrone prima di andare sul set? Lavorate già in sede di sceneggiatura a una strategia del suono?

Non amo mai parlare con i registi prima del set, perché so che sarà diverso dalla sceneggiatura. Per esempio quando arrivai sul set del Racconto dei Racconti (2015), Garrone mi disse che quella notte avevano scritto la canzone della pulce e bisognava registrarla in scena, senza che io la avessi mai ascoltata. A volte, come per Suburra di Stefano Sollima, abbiamo fatto dei provini, perché dovevamo sentire delle battute in una scena in movimento sotto il rumore della pioggia. Ma in genere dopo aver letto la sceneggiatura mi piace improvvisare con le intuizioni che mi vengono sul set. Non amo gli “a vuoto” degli attori in doppiaggio. Per me deve risolversi tutto sul set, è una questione di vita o di morte.

Tecnicamente come avviene il tuo lavoro sul set? Hai un microfonista come braccio destro e un referente per la postproduzione?

Ci siamo io e il microfonista. Io pianifico la scena, piazzo i microfoni in giro per avere effetti sonori dell’ambiente e mi organizzo coi radiomicrofoni. In Romanzo Criminale ci sono dei suoni bellissimi, spari sullo sfondo, voci. Il boom lo uso sempre, a volte arrivo sul set con un numero di microfoni esagerato, persino per i respiri. Per me è come una preparazione alla guerra. 

Segui la fase del montaggio del suono e del mix?

Sì, Pinocchio l’ho seguito tutto perché Matteo voleva sempre aggiungere delle cose, una risatina, un suono particolare. Arrivo in montaggio con i microfoni con cui ho girato. Ho un microfono che sta con me dal 1993 regalatomi da Bruno Pupparo. È un 416 T ceinnaser che non a tutti piace. È molto vecchio, ma ha un suono straordinario. Per me è come un figlio.

Cosa ti piace di più dello stile di Garrone quando siete sul set?

Di Matteo mi piace tanto il suo modo di girare il film in sequenza, che permette non solo al cast artistico ma anche a tutta la troupe di partecipare alla crescita della storia. Il suo dare indicazioni in punta di piedi agli attori, spiegando i punti cruciali necessari alla narrazione, ma lasciandoli liberi di muoversi all’interno dei loro personaggi. È un continuo scambio di emozioni fra tutti. Per non parlare di quando impugna la macchina da presa, cosa che purtroppo fa sempre meno, e che secondo me è il valore aggiunto di un film come Gomorra.

Che rapporto hai con il compositore delle musiche di un film?

Mi piace molto interagire con la colonna di un film, a volte capita che il musicista decida di utilizzare i miei fondi per sviluppare la sua idea di narrazione musicale. È successo con la Banda Osiris nell’Estate Romana di Garrone (2000), ma è successo anche con te per la musica di Ritorni (2005), dove tuo fratello Giuliano, autore delle musiche, lavorò sulla poesia cantata di Abderrazak che avevamo registrato al volo durante il viaggio in traghetto per la Tunisia.

Hai lavorato al film Noi credevamo di Mario Martone, di cui quest’anno si celebrano i 10 anni, sul Risorgimento italiano, sul Verga di Pasquale Scimeca, sul Cunto dei Cunti di Garrone. Come ti documenti quando fai un film in costume?

Prima del film cerco di documentarmi più che posso, chiamo il costumista perché gli abiti devono essere di fibra naturale, abiti morbidi insomma per poter utilizzare i microfoni. Ma mi rapporto anche con chi si occupa della scenografia. Quando uno cammina su storie ricostruite è necessario. È successo con Il Racconto dei racconti, ma anche con Il Flauto magico di Piazza Vittorio [di Mario Tronco e Gianfranco Cabiddu, 2018, ndr]. Ricordo la scena di Giovanni Calcagno e di Vincenzo Pirrotta che festeggiano la spedizione garibaldina con il cunto siciliano in Noi Credevamo. Giravamo nel Cilento, sulle barche. Fu una delle scene più difficili della mia carriera e una delle giornate più frenetiche della mia vita.

Le tue ultime esperienze riguardano alcuni tra i cineasti più innovativi del panorama internazionale. Fabio Mollo, i gemelli D’Innocenzo, Garrone. Per quale cinema italiano tifi come spettatrice?

Padre d’Italia di Fabio Mollo (2017) è un film bellissimo, la canzone che la Ragonese canta nel film canta l’ho registrata io. Ci sono delle cose bellissime in Favolacce dei D’Innocenzo, uscito in questi mesi. Mi piace Eros Puglielli e vorrei segnalare un piccolo film uscito in sala nel 2019, Rosa di Katja Colja con Lunetta Savino. La storia di una donna che dopo un grande dolore riesce a trovare una nuova forza per prendersi cura di se stessa. Amo i cineasti che fanno i film per gli altri, non per se stessi.

Nel tuo percorso hai incontrato registi come Kiarostami e Kusturika. Come lavorano i tuoi colleghi stranieri e che rapporto hanno con la cultura del suono?

Lavorano molto peggio di noi italiani, che siamo molto più raffinati. in America si doppia tutto. Però devo dire che Kiarostami è un gran signore. Durante una scena del film a cui stavo lavorando [“Ticket” 2004], ebbi un battibecco per un problema tecnico e lui alla fine si venne a scusare. Con Kusturika invece [“Super 8 stories” 2000] era il caos totale. Mi accorgevo che stavano arrivavano sul set dal polverone che ci piombava addosso, anche a livello sonoro.

Cosa ti manca della Sicilia e della tua città di origine?

Quando torno ad Agrigento la prima cosa che faccio è andare alla Valle dei Templi. Una “spazzolata” tra Giunone, Concordia ed Ercole, che è il mio preferito, e me li vado a guardare. Sono belli, eterni e stanno sempre lì a rassicurarci.