Salina-Doc-Fest-2014

Come nasce un festival al largo di un’isola

Ho fondato il SalinaDocFest otto anni fa, nel cuore delle Eolie, perché credevo, e credo, nella forza del documentario narrativo e in un turismo culturale destagionalizzato che contribuisse a salvare le isole dal loro isolamento. L’idea nacque dieci anni fa, sul ponte di una nave, durante un viaggio di ritorno dalle Eolie. Stavo lasciando l’isola di Salina, dove sono cresciuta e mi sono ri-conosciuta. E come ogni anno, di fronte al faro di Lingua che si allontanava, provavo quella fitta di dolore che prende quando lasci la persona che ami.

Rileggevo le pagine di Don Chisciotte, il cavaliere errante che si scopre libero solo quando viaggia, quando è in movimento. Quel Chisciotte che fu concepito proprio di fronte a questo mare, in un delirio tutto siciliano, da Miguel de Cervantes mentre era in convalescenza all’Ospedale Maggiore della città di Messina.

Un amico isolano, che mi aveva accompagnato al porto, mi aveva salutato così: «Non essere triste. Quando la nave supererà la punta di Milazzo non ci penserai più e noi torneremo a essere invisibili, nella nostra solitudine isolana».

Ripensai alle parole di Gavino Ledda, il protagonista di Padre padrone, quando alla fine del film si rivolge agli spettatori, mentre la macchina da presa panoramica verso la finestra a scoprire un paese desolato dell’entroterra sardo: «Ora la vedete così, la nostra Sardegna – diceva -, bella e con il sole. Ma tornateci in inverno, quando le piazze sono vuote e la solitudine cancella la nostra giovinezza».

Pensai al destino orgoglioso di noi documentaristi, condannati come gli isolani all’invisibilità nel nostro paese, cresciuti nella guerra dell’isolamento e della solitudine.

Giorni prima, durante una cena con gli albergatori e i ristoratori del luogo, tutti amici d’infanzia che hanno intrapreso l’unica carriera possibile in un’isola, quella del turismo, avevamo fantasticato sotto l’effetto della malvasia di possibili futuri scenari per l’isola, che è così bella quando arriva Settembre, il mese delle vendemmie, ma che i turisti si ostinano a conoscere solo ad Agosto, il mese più caotico dell’anno. Facciamo qualcosa che allunghi la stagione turistica a Settembre, ci eravamo detti, e in un momento tutto chisciottesco avevo preso la mia decisione: portare nell’isola che amo il lavoro che amo.

Così decisi di mettere insieme il mio amore per il cinema e il mio amore per l’isola e di fare un Festival dedicato al documentario narrativo, per riaccendere le luci su un genere dimenticato e su un arcipelago che un tempo fu mèta di grandi registi – un nome per tutti, il “nostro” Vittorio De Seta -, ma anche pellegrinaggio di molti scrittori viaggiatori.

Goethe definiva la Sicilia «un deserto di fecondità», con un ossimoro che rende bene la contraddittorietà delle nostre isole, bellissime e insieme terribili; Alexandre Dumas le ricorda nel suo Viaggio in Sicilia: «Bordeggiammo per una parte della giornata; avevamo il vento sempre contrario. Passammo poi in rivista Salina, Lipari e Vulcano scorgendo, ad ogni passaggio tra Lipari e Salina, lo Stromboli scrollare all’orizzonte il suo pennacchio di fiamme».

In tempi più recenti la scrittrice Lidia Ravera, ospite in giuria del SDF una delle scorse edizioni, omaggia così l’isola di Stromboli dove ha deciso di ritirarsi parte dell’anno: «È la lontananza, la chiave di questa ottusa felicità. Sono, finalmente, lontana. Da che cosa esattamente non lo so, ma mi pare che non abbia importanza. Dalla terraferma. Dalla città. Dalla realtà. Non lo so. Mi sento lontana e basta».

Che richiama molto da vicino la scritta apparsa improvvisamente in questi giorni a Salina, in attesa del nostro Festival, sulla vetrina del ristorante di un amico di vecchia data: «Cucina isolana. E orgogliosamente isolata. Da vent’anni».

“Isolani sì, Isolati no!” fu dal primo anno il nostro slogan e continua a esserlo oggi, con il nuovo Video Contest firmato Tasca D’Almerita per giovani filmmaker non professionisti di tutte le isole minori d’Italia e con il nostro impegno costante per l’incremento dei trasporti che collegano le isole al continente.

Sin dal primo anno, quando aprimmo il festival con Roberto Saviano, che aveva appena pubblicato il suo Gomorra, la Direzione Cinema del Ministero dei Beni Culturali di Roma ci sostenne con curiosità e attenzione: aveva colto la nostra sfida per un turismo culturale e destagionalizzato che portasse il mondo sull’isola, attraverso la cultura, e aprisse nuovi spiragli ai giovani.

Partimmo così come un esercito inesperto di “Don Chisciotti”, animati solo dalla passione e dalla febbre visionaria dell’eroe errante. In otto anni, sotto le ali protettive di Romano Luperini, Paolo e Vittorio Taviani, Bruno Torri, Carlo Antonio Vitti, Comitato d’Onore del Festival; grazie a una squadra di professionisti come Mazzino Montinari, Antonio Pezzuto, Marzia Spanu, Arianna Careddu, Vincenzo Corona, Arturo Giusto, Elisabetta Briguglio, Massimo Ruggiano, Davide Umilio e il resto dello staff che lavora nell’ombra dietro al Festival tutto l’anno; grazie all’opera costante e all’impegno di Gaetano Calà, Direttore Nazionale dell’ANFE, di Clara Rametta, Luciano Sangiolo e Giuseppe Siracusano; all’Associazione “Salina Isola Verde”, ai Sindaci Massimo Lo Schiavo e Salvatore Longhitano e alle due Amministrazioni locali, siamo finalmente entrati (almeno sulla carta) nel calendario dei Grandi Eventi dell’Assessorato al Turismo della Regione Sicilia.

Abbiamo scoperto documentaristi come Gianfranco Rosi (Leone d’Oro a Venezia lo scorso anno con il suo Sacro Gra); abbiamo lanciato un grido di allarme per il Mediterraneo nell’anno delle primavere arabe; abbiamo dimostrato che, contrariamente a quel che si dice, con la cultura si mangia e che il profitto immateriale, in termini di immagine e di turismo, a volte paga più di quello materiale. Oggi in Europa dici “Salina” e gli addetti ai lavori rispondono subito “SalinaDocFest”.

All’inizio, certo, non è stato facile. Gli abitanti dell’isola erano gelosi della loro terra; a tratti diffidenti nei confronti di noi stranieri. Ma poco a poco il SalinaDocFest è entrato nel loro animo, fino a diventarne parte. Così un giorno approdai, come ogni estate, al molo di Santa Marina e fui accolta da un amico del porto, lo stesso che mi aveva salutato con malinconia qualche anno prima. Aveva sotto mano alcuni dvd che custodiva gelosamente: erano documentari che durante l’inverno si era procurato a Messina, perché ormai, grazie a noi e al SalinaDocFest, non riusciva più a farne a meno. L’obiettivo era stato raggiunto.

In otto anni la nave del SalinaDocFest ha riattraversato la storia del nostro paese, alla ricerca di un porto comune e in difesa di una comunità alternativa all’ordine esistente. Nonostante le tempeste e le avversità è andata sempre dritta superando intemperie e ostacoli, ha imbarcato amici, idee, pensieri (qualcuno invece è voluto scendere), senza avere mai paura di cambiare rotta; proprio come fa il documentarista, che per natura è aperto al mondo e all’ascolto degli altri. Ogni anno siamo usciti da questa esperienza cambiati, scossi, diversi, a dimostrazione che il documentario è il più potente defibrillatore sociale di cui disponiamo oggi, una vera e propria arma in grado di risvegliare le coscienze e far aprire gli occhi su realtà invisibili, cancellate, rimosse o dimenticate.

Quest’anno il SalinaDocFest si realizza solo grazie al contributo del Ministero dei Beni Culturali, dell’ANFE, degli sponsor privati e delle Amministrazioni locali. Privati del supporto delle Istituzioni Regionali, siamo costretti ad andare avanti con le nostre sole forze e con l’aiuto dell’isola, per non naufragare. E allora pronti, per l’ultima volta (il sacrificio è troppo grosso da sopportare) a una nuova grande edizione, che nasce come sempre da un’attenta disamina della nostra società.

“Donne e Mediterraneo” è il tema che abbiamo scelto e che avrà come madrine due grandi donne fuggite dall’Iran: Nahal Tajadod, scrittrice, nata nel 1960 e cresciuta nel Regno dello Scià, e Golshifeth Farahani, l’attrice di Teheran, nata negli anni Ottanta subito dopo lo scoppio della Rivoluzione Islamica. Due donne in esilio, voluto o forzato, che hanno lasciato la loro terra e hanno scelto di vivere in Europa.

Quando le ho incontrate a Parigi, nel quartiere di Montmartre, per il nuovo documentario a cui sto lavorando, ho pensato subito al nostro Festival. Portiamole a Salina, mi sono detta, a testimoniare la loro esperienza di donne che lottano per affermare la propria identità e rivendicare il proprio talento. Così abbiamo deciso di proiettare un film che ha molto segnato la mia identità di donna e di cineasta, Come pietra paziente, e di premiare la scrittrice Nahal Tajadod per il libro L’attrice di Teheran. Elle joue, si intitola originariamente, che significa “lei gioca”, “recita”, “suona”. Perché nella lingua francese l’arte ha a che fare con il gioco; il “libero gioco dell’immaginazione”, come lo definiva Kant.

Ma esistono paesi in cui se sei donna ti impediscono di giocare, di suonare, di danzare, di recitare, persino di studiare. «Sono un caso unico al mondo – mi ha detto ridendo Golshifeth -. L’unica donna che non può tornare in patria non perché ha tradito o ha commesso un reato contro la legge. Ma perché voglio fare cinema». In Iran il successo lo aveva già raggiunto da adolescente, quando aveva recitato nel cinema del regime ufficiale.

Era nata la “Madre dell’Iran”, ma a Golshifeth quel ruolo le stava già stretto. «Volevo interpretare ruoli non edificanti, come fa un grande attore che riesce a calarsi nei panni di personaggi anche lontani dal suo immaginario e oggi che finalmente faccio quello che amo posso dire con tranquillità che i miei figli sono i miei film». Una frase forte, che denota la passione frontale con cui Golshifeth ha scelto di vivere questo mestiere. Le fa eco Margarethe Von Trotta, una grande regista tedesca che avrei voluto con noi al Festival: «Ho avuto solo un figlio – mi ha detto – quando ero molto giovane e poi niente più».

Perché? Le ho chiesto io. «Perché ho deciso di vivere il mio tempo, e se fai cinema il tempo è fondamentale». Mi chiedo che fine abbiano fatto le conquiste del femminismo e le battaglie delle nostre madri, se ancora oggi in Italia siamo costrette a scegliere tra carriera e maternità e se ancora oggi non sei considerata donna, se non sei madre. Ne parleremo con le nostre ospiti registe e critiche cinematografiche, tra cui voglio citare almeno Wilma Labate e Laura Delli Colli, ma anche con le attrici Maria Pia Calzone, la Imma di Gomorra, che quest’anno Sky ha deciso di portare al nostro Festival, e con Celeste Casciaro, l’Adele di In grazia di Dio, un film importante di Edoardo Winsperare che proiettiamo a Salina come evento speciale, insieme a Belluscone. Una storia siciliana di Franco Maresco, quest’ultimo direttamente da Venezia.

In grazia di Dio racconta la storia di tre generazioni di donne, una nonna, una madre e una figlia, costrette a vendere tutto quello che hanno in città a causa della crisi economica e a ritirarsi a lavorare nei campi in un piccolo paese della Puglia. Sole, nella battaglia quotidiana per la sussistenza, senza più il sostegno degli uomini che vivono ai margini, che non si assumono responsabilità, che non sanno più venir a ferri corti con la vita. A fare da mogli sono solo le nonne, ormai da lungo tempo vedove; le figlie non sanno neanche chi siano i loro padri; le madri portano avanti con tenacia la famiglia, reificate nei sentimenti, stritolate dall’egoismo di una società fondata sul potere maschile.

«Per innamorarsi non bisogna avere debiti», dichiara la protagonista del film, in una frase che riassume in sé il tema di questa edizione, frutto come sempre di una lunga riflessione durata tutto l’anno. “L’anno delle donne”, appunto, com’è stato definito dai media, attanagliate da una morsa che le vede da una parte in ascesa nel mondo della comunicazione, del cinema e delle arti, consapevoli di sé e del proprio ruolo nella società; dall’altra discriminate sul mondo del lavoro (in Italia solo l’otto per cento dei registi è donna e nel mondo la situazione è ancora più preoccupante); vittime di una violenza regressiva in crescita, che in Occidente prende il nome di femminicidio e in Oriente è legittimata ogni giorno dal potere del fondamentalismo islamico che continua a considerare la donna come una proprietà e la cultura come una deviazione da combattere.

E finisco con un’immagine che riprendo dalle pagine del bel libro della Tajadod e che mi è rimasta scolpita dentro come un sasso levigato dalle onde del mare di questa isola. Sheida, questo il soprannome della protagonista, ha quindici anni e studia al conservatorio di Teheran. Una mattina per strada si accorge che qualcuno la sta seguendo. Rallenta. Un uomo alle sue spalle si allontana. Riprende a camminare ma avverte un bruciore alla schiena. Quando si tasta il soprabito si ritrova brandelli di stoffa in mano. Aggredita con l’acido perché donna.

La mattina dopo al risveglio Sheyda si piazza davanti allo specchio del bagno e si rade i capelli a zero, come ha imparato dai truccatori del cinema che ha cominciato a fare da quando è piccola. Poi si fascia i seni, si mette un berretto ed esce per strada. Senza velo. Libera sotto le spoglie di Amir. Per un anno si traveste da ragazzo per poter uscire la sera, correre in bicicletta per le strade della città, andare nei bar a parlare fino a tardi. Liberatasi dall’ingombro del suo involucro femminile, diventa un maschio per fuggire la violenza. «Amir non è una fantasia, è una necessità».

A Golshifeth, alle donne e al Mediterraneo dedico dunque quest’ultima edizione del SalinaDocFest, un Festival nato nel mare, cresciuto nel mare, e circondato dal mare. Un mare che unisce le coste dei paesi nel momento in cui le divide, proprio come le onde marine vanno e vengono; che dà nutrimento a chi lo vive e al tempo stesso lo condanna all’isolamento, trasformando il più delle volte la condizione dell’insularità da privilegio a disgrazia. Un mare che da Madre protettiva e accudente si è trasformato in un cimitero di lutto e di pianto (duemila i profughi partiti dalle coste della Libia scomparsi dall’inizio dell’anno; quasi centosettantamila i migranti giunti sulle coste italiane nel 2014), come ci ricorderà in un incontro con Marcello Sorgi il nostro ospite d’onore, Moni Ovadia.

«Arriverà un giorno in cui il Mediterraneo tornerà a essere quello che era un tempo e noi giovani non saremo più costretti a fuggire»: lo dice una ragazza algerina nel documentario dedicato alla grave situazione in Algeria del regista franco marocchino Bruno Ulmer, Paroles d’Algérie. Lo ripetiamo anche noi da questa isola e con questo Festival. Arriverà un giorno in cui i giovani non saranno più costretti ad andar via dalla Sicilia.

Sessantamila sono fuggiti da Palermo in questi ultimi anni e ancora ricordo gli occhi asciutti di Vincenzo Consolo mentre mi narrava i motivi dolorosi che lo avevano spinto a lasciare il calore della sua terra per emigrare nella fredda Milano. Arriverà un giorno in cui scrittori come Roberto Saviano o Nahal Tajadod o Assia Djebar potranno tornare a circolare a piedi nudi nella propria terra e a scrivere nella propria lingua. Arriverà un giorno in cui la Sicilia, e in generale tutto il nostro paese, tornerà a essere una terra di cultura e di investimento; una terra normale e meritocratica dove tutto è possibile indipendentemente da chi sei, ma solo per quello che fai.

Nell’attesa di quel giorno, e spero non per sempre, siamo costretti, con dolore, a emigrare anche noi e a prendere il largo per il mondo, senza dimenticare di dire grazie a Roberto Guala, a questa isola e a tutti quelli che hanno creduto in noi.

Grazie Salina!