Salina-Isola-di-Resistenze

Una foto, un’immagine.

Il cortile nero di un carcere, sotto il cielo bianco che sovrasta. Un ragazzo al centro dell’inquadratura, piccolo nel grande atrio di cemento. Seduto a terra, le spalle poggiate al muro, le gambe accavallate. Solo.

Siamo nella prigione giovanile di Sulaimaniya, città del Kurdistan iracheno, come leggiamo nella didascalia. La data, 1998, ci riporta agli anni della guerra civile nel Kurdistan, dopo il tragico decennio di Saddam Hussein.

All’interno del carcere, in un totale che accentua la sua solitudine, ma anche la sua forza, il giovane prigioniero attende che le ultime nuvole se ne vadano via.
È questa la foto che Francesco Zizola, World Press Photo of the Year, ha regalato al SDF per sintetizzare l’immagine simbolo delle (R)esistenze.

Quel giovane al centro dell’inquadratura mi ha riportato all’Angelus Novus di Walter Benjamin, ispirato al celebre dipinto di Paul Klee. Ha lo sguardo inclinato in basso, rivolto al passato, dove vede solo cumuli di macerie, morti e rovine. Ma alle sue spalle spira una tempesta di vento che apre le sue ali e lo trascina irresistibilmente verso il futuro.
Ai giovani Angeli della Storia dedico questa edizione del Festival.

Ieri il giovane curdo che (r)esiste; oggi i giovani europei che protestano per il futuro del pianeta e vogliono riprendersi in mano il mondo. Svincolati dalle ideologie, tra il muro che li separa dal mondo degli adulti e il cielo a cupola che li sospinge verso il futuro.

R-esistente è Salina, modello di accoglienza e integrazione, antidoto alla terribile ondata social-xenofoba che sta attraversando l’Europa. R-esistenti sono i capperi, simbolo dell’isola verde dell’arcipelago, al cui fiore il nostro logo è ispirato. Le loro radici sono una rete di capillari fittissima in grado di trattenere l’acqua. Sono, appunto, piante (r)esistenti.
R-esistenti sono i documentaristi e le storie che porteranno in concorso. Storie di resistenza privata e collettiva, di alleanze che vogliono opporsi alla dispersione della memoria. Sono i nuovi villani del nostro paese – per riprendere il titolo del bel documentario fuori concorso di Donpasta -, che dal centro si spostano in periferia, al Sud, per tornare a lavorare la terra, in vecchie e nuove forme di vita e convivenza.

R-esistenti sono gli adolescenti del quartiere Traiano di Napoli, raccontati da Agostino Ferrente, nel pluripremiato documentario Selfie, che imparano a guardare se stessi dal di fuori, con lo sguardo del cinema; imparano ad oltrepassare la siepe con la forza dell’immaginazione.

Non resistono invece i ragazzi di periferia che non hanno diritto allo studio e sembrano predestinati alla malavita, come nel film La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, premiato a Berlino per la migliore sceneggiatura insieme a Roberto Saviano (al cui romanzo è ispirato) e a Maurizio Braucci.

Giovannesi, che torna quest’anno a Salina in giuria, insieme a Zizola e al grande documentarista francese Nicolas Philibert, incontrerà il pubblico alla fine della proiezione con Enrico Magrelli, per riflettere sulle differenze tra romanzo e film. «Non volevo rifare Gomorra. Volevo vedere i protagonisti dall’interno, parteggiare per loro con uno sguardo empatico, non distaccato». Così il regista in un’intervista pubblicata nel nostro sito; e aggiunge: «mentre scrivevo la sceneggiatura, avevo in mente il finale di Germania Anno Zero. Edmund prova a giocare a pallone con gli altri bambini, ma il gioco non gli riesce più. Ha perso l’innocenza».

R-esistente è la Scuola, la grande assente delle periferie del nostro paese. Se Ferrente sceglie una scuola abbandonata come scenografia dove ambientare le fughe dei due protagonisti, i loro sogni e la voglia di ricominciare; Giovannesi sembra dirci che quando le istituzioni non investono più sulla scuola, i ragazzi si perdono, la delinquenza dilaga. «Il danno equivale allo scoppio di una bomba atomica».

R-esistenti sono il cinema e la fotografia, che, grazie ai due grandi ospiti di questa edizione, Marco Bellocchio e Letizia Battaglia, lasciano in eredità ai giovani la memoria di ciò che siamo stati. Dalle stragi del terrorismo a quelle di mafia, dal delitto Aldo Moro alla morte di Falcone e Borsellino, Bellocchio e Battaglia hanno raccontato, con l’occhio della fantasia e la spregiudicatezza dell’invenzione, gli anni in cui la nostra generazione ha bruciato la propria giovinezza.

Il primo porta a Salina un film decisivo di questo ultimo anno, Il Traditore, grande successo a Cannes e in sala, dove ha registrato il tutto pieno. A dimostrazione che il grande cinema sa trattare temi forti ancorati alla realtà, con la fantasia visionaria del linguaggio, scandagliando i limiti oscuri dell’essere umano.

Parliamo della tragica figura di Tommaso Buscetta, interpretato da Pierfrancesco Favino, ma anche della Primula rossa di Corleone, Luciano Liggio, uno dei maggiori imputati al maxiprocesso, nel film interpretato da Vincenzo Pirrotta, anche lui ospite del Festival.
A Marco Bellocchio, autore di un cinema puro dove la prosa diventa poesia, quest’anno viene assegnato il nuovo Premio Ave – Energia della Poesia/Poesia dell’Energia, nato dalla sinergia con un imprenditore illuminato, e scrittore, come Alessandro Belli.
Le ombre del passato ritornano e riaffiorano dal represso, individuale e collettivo, coniugando la grande letteratura di Dostoevskij e di Kafka alla più alta tradizione del cinema della realtà.

Come succede nel bellissimo documentario Shooting The Mafia, di Kim Longinotto, sulla grande figura di Letizia Battaglia.

Dagli esordi della carriera, quando collaborava con il giornale palermitano “L’Ora”, fino all’attentato a Falcone, dove «io non ebbi la forza di andare», Palermo è l’humus da cui Letizia ha tratto la sua linfa vitale, la sua forza, la sua voglia di libertà. Ma la vera protagonista è lei: una donna che è stata molto amata e molto ha amato; che ha fotografato l’odore del sangue di Palermo, e che ora sa, forse, che non potrà mai più liberarsene. Perché il film, in fondo, parla dell’amore, della paura, della morte. Della caducità della vita, delle vittime della mafia, svanite nei furiosi scatti in bianco e nero, come degli amori vissuti, che prima o poi finiscono.

Che cosa resta? – si chiede Letizia, insolitamente docile e fragile, alla fine. Che cosa resta di Falcone, di Borsellino, delle vite spezzate, degli amori finiti, delle nostre resistenze, dei nostri sogni? Rispondono le immagini per lei: restiamo noi e la nostra memoria.
Per questo abbiamo aderito all’appello in difesa dell’insegnamento della Storia – La Storia non si cancella – lanciato da Andrea Giardina, Liliana Segre e Andrea Camilleri, a cui va il nostro pensiero e il nostro abbraccio profondo. E per questo, in collaborazione con il CIDI Palermo, quest’anno inauguriamo una nuova sezione Cinema e Storia, dedicata agli insegnanti, ultimi intellettuali liberi del nostro paese.

All’anteprima palermitana di giugno, dedicata a Mimmo Lucano e all’insegnante sospesa dalla scuola, Rosa Maria Dell’Aria, Romano Luperini, il mio maestro, apriva il suo intervento con una citazione dal grande sociologo polacco Bauman, tratta dal suo Elogio della Letteratura: «Come potremo diventare noi stessi senza una eredità, senza un maestro, senza la sua voce, senza un messaggio profondo?».

Educare significa tirare su, far crescere, trasmettere una eredità che viene dal passato e guarda al futuro, senza la quale il giovane studente non potrà mai diventare se stesso. «Uno studente – concludeva – è maturo non quando acquisisce delle nozioni, ma quando impara a commuoversi di fronte a ciò che è bello e ciò che è grande». Il maestro è ben più che un professore: trasmette una eredità emotiva, oltre che conoscitiva; insegna a vivere civilmente; a non piegarsi al dio denaro, ma alla grandezza dell’animo umano.

Mi torna in mente una frase di Pasolini: non è l’orrore che da angoscia, ma la sua ovvietà. Quando l’orrore diventa ovvio, la civiltà umana è perduta. Troppo spesso quest’anno l’orrore è diventato ovvio; troppo spesso abbiamo voltato la testa dall’altra parte. Per questo con la nuova sezione su Cinema e Storia ci rivolgiamo direttamente alla scuola, per una riflessione collettiva sulla salvaguardia della memoria storica e sull’insegnamento della cultura della legalità attraverso il cinema.

R-esistenza della memoria, come ci ricorda l’ospite internazionale di questa edizione, Abraham Yehoshua. Da Divorzio tardivo al Responsabile delle risorse umane fino a Tunnel, che Valentina Carnelutti interpreterà in alcuni stralci per il pubblico, Yehoshua ha sempre lavorato sul recupero della memoria come unico veicolo per costruire il ponte della pace tra il popolo palestinese e il popolo israeliano.

Ma nella memoria c’è anche il ricordo di quando gli emigranti eravamo noi. Soprattutto a Salina, dove l’emigrazione per l’Australia e per le Americhe, nel corso del Novecento, spopolò in pochi anni l’isola.

Dopo l’esperienza fulminante dello scorso anno, dove Mario Incudine ha incantato il pubblico cuntando di Polifemo e Ulisse, ospite ingrato, ecco quest’anno OPERA PAESE – REFUGEES, cunto collettivo ideato e diretto da Ugo Bentivegna, in anteprima nazionale a Salina, con la partecipazione straordinaria degli abitanti dell’isola.

In un corteo immaginario di emigranti, che nel 1915 salparono da Santa Marina per raggiungere le Americhe, accompagnati dalla chitarra di Incudine, nel ruolo di Salvatore, Bruno Trimboli, Rita Costa, il piccolo Elia, Momo e altre comparse dell’isola, si vestiranno dei panni dei loro nonni e delle loro nonne, e rievocheranno il dolore della partenza, l’abbandono della propria terra, la paura del mare in tempesta.

Il Festival finirà su quel molo, a poche miglia di distanza da un altro molo, su un’altra isola, il molo Favolaro di Lampedusa, dove Lidia Tilotta, per anni, come inviata speciale di Rai 3 “Mediterraneo”, ha raccontato storie di immigrati che non ce l’hanno fatta. Su quel molo Lidia ha conosciuto un uomo, tra i sacchi verdi depositati sulla spiaggia, curvo a cercare un segno, qualcosa che rendesse riconoscibile un corpo. Quell’uomo era Pietro Bartolo, il medico di Fuocoammare. Da quell’incontro è nato un libro a quattro mani, Lacrime di sale, che oggi i due autori portano in giro in tutta Italia e in Europa nelle scuole e nelle università.

Per non dimenticare e non far dimenticare, per scuotere le coscienze.
Perché l’orrore non sia più ovvio.
Perché ciò che è grande e ciò che è bello torni a farci commuovere.

Giovanna Taviani